Il termine antisemitismo è stato coniato alla fine del XIX secolo dal giornalista Wilhelm Marr e consiste nell'avversione, su basi razziali, nei confronti delle persone di religione ebraica; col tempo è venuto in anche per indicare le avversioni motivate con ragioni di tipo politico; talvolta lo si confonde con la rivalità, l'ostilità o l'avversione di tipo religioso (antigiudaismo) all'ebraismo, anche se la maggior parte degli storici distingue accuratamente i due termini[1].
Una tradizione di ostilità del cristianesimo nei confronti dell'ebraismo e del popolo ebraico si sviluppò fin dai primi anni della cristianità[2][3] ed è proseguita nelle epoche seguenti[3] sulla spinta di numerosi fattori, tra cui differenze teologiche, la spinta cristiana al proselitismo[3] e alla conversione, auspicata e forzata, degli ebrei[4] decretata dall'incarico che Cristo risorto diede ai suoi discepoli, il fraintendimento delle credenze e delle pratiche religiose degli ebrei, e una percepita ostilità ebraica nei confronti dei cristiani[5]. Questa avversione è culminata nell'Olocausto, che ha portato molti cristiani a riflettere sui rapporti tra teologia, pratiche religiose, e il genocidio[5][Nota 1].
«L'antigiudaismo, nato sin dall'epoca evangelica e presente in qualche misura anche nel pensiero di San Paolo e Sant'Agostino, rimane un elemento presente nella cultura cristiana anche nei secoli successivi, quando l'ebraismo, pur non venendo considerato come un'eresia, è attaccato come dottrina sia tramite l'opera di proselitismo di domenicani e francescani sia sul piano teologico ed esegetico [...].»
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